Campocroce di Erika Reginato, la poetessa Adelw Desideri scrive sul mio libro
Erika Reginato, Campocroce (2000-2007), Editoriale Sometti, Mantova, 2008, pag. 109.
Campocroce è un delizioso, delicato libro di poesie, pubblicato in edizione bilingue (in spagnolo e nella traduzione in italiano di Emi Rabuffetti), per i tipi di Sometti, nella collana Archivio della Poesia del ‘900, diretta da Alberto Cappi.
L’autrice
Erika Reginato si è laureata presso l’Universidad Central del Venezuela
con una tesi su Giuseppe Ungaretti, è traduttrice di diversi poeti
italiani contemporanei - tra i quali Milo De Angelis e Davide Rondoni - e
ha collaborato con Santos López, in Venezuela, alla Settimana
Internazionale della Poesia e al Festival mondiale della Poesia. Nata a
Caracas, risiede ora in provincia di Vicenza.
Campocroce
è un paese situato sul Monte Grappa, ma è anche un luogo di memoria,
dove si nascondeva - nella Seconda Guerra Mondiale - il nonno della
scrittrice, combattente tra le fila dei partigiani.
Così, la silloge Campocroce
- dedicata agli antenati di Reginato -, affonda in una malinconica
levità, in una pacata, matura nostalgia, evitando però qualsiasi
sfumatura lugubre: “Quante volte devo/ piangere i morti?// (…)// Vengono
dal paese del sogno/ a consegnarmi l’abbondanza/ del campo arato e
dell’ulivo/”.
Il
grano e il fiume, il merlo e la neve, il vento e l’oceano, la natura
tutta, sono per Reginato una metafora dell’esistenza, della vita e della
morte, del tempo che scorre, degli affetti che non tramontano, che
restano anzi come perle di saggezza, come schegge di dolore - senza
rancori - nei cuori di chi ripensa ai propri cari, nei sogni di chi sa
fare tesoro del passato: “Offro il grano che ci unisce.// Le anime
accendono il fuoco del ritorno/ albeggiano sopra i tetti.//”.
Un
canto leggero, appena sussurrato, si innalza e riecheggia di verso in
verso. Una preghiera melodiosa, mai rassegnata, si fa voce universale,
orecchio che ascolta i fremiti dell’anima, segno di equilibrio nello
spirito e nella forma, anche quando assume i toni della lamentazione:
“La linea che divide/ la nostra anima, Padre/ è come la distanza tra il
bordo/ e la salita del fumo.// (…)// Il cerchio disegna il nostro
incontro.//”.
Non
mancano accenni alle colpe, alle angosce, alle battaglie perdute: “Chi
conosce/ le lenzuola di un morto,/ il sollievo dell’acqua,/ la sua mano
rugosa nell’angoscia?//”, “Fino che ora/ ci sarà vigilia?// Gli
sconfitti conversano/ abbracciano la colpa,/”.
Eppure
Reginato non si ferma qui, non si arresta di fronte alle amarezze.
Vuole proseguire sulla strada indicatale da chi l’ha amata; vuole, ad
ogni sorgere del sole, sorridere ancora: “Canto scalza,/ ripeto segreti
ai santi,/ accendo candele esposte all’alba/ attraverso l’umidità della
vigilia,/ l’odore del miracolo.//”.
Ci
si chiede, talvolta, quale senso abbia scrivere poesie, in un mondo
come il nostro, che confonde la bellezza con la volgarità, che non ha
più occhi che guardino il cielo, ma solo volti tetri o finti, reclinati
nella sfera narcisistica del privato.
Leggendo
queste pagine di Reginato, forse una risposta fa capolino. La poesia
sfiora il limite, la soglia. Si inoltra negli enigmi dell’Assoluto. Non
comunica certezze matematiche o scientifiche. Allude, evoca il mistero
ultimo delle cose: “Sotto/ nella chiesa/ il corpo dorme./ Sopra/ una
farfalla gioca/ vicina a Dio.//”.
E Reginato ci aiuta, alla pari di tanti altri bravi poeti, ad assaporare la musicalità dell’universo, a goderne l’infinitezza nei giorni modesti della semplice vita: “Campocroce è immenso perché la salita inizia all’alba in casa di zia Lena”.
Adele Desideri
Pubblicata ne Il Quotidiano della Calabria, rubrica Libri e letture, 31 maggio 2010
Questo libro è stato un percorso e credo che queste poesie sono la meta del viaggio della poesia, conoscere y suoi antenati.
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